martedì 24 settembre 2013

D’AMBRA, LA QUALITÀ AL PRIMO POSTO

La tradizione vinicola sulla nostra isola affonda le proprie radici in periodi storici davvero risalenti. Nel corso del tempo ci sono state persone, o addirittura intere famiglie, che hanno dedicato e continuano a impiegare il proprio tempo e tanta fatica per portare avanti un progetto che consenta loro di creare prodotti di alta qualità. È proprio questo il caso della Casa Vinicola D’Ambra, che nasce nel 1888 per volere di Francesco, meglio conosciuto come “Don Ciccio”. Nato in una famiglia di viticoltori locali, ancorché giovanissimo, si dedicò con zelo al commercio del vino isolano, che nel corso degli anni, grazie alla lungimiranza dei suoi discendenti (Mario, Michele e Salvatore), avrebbe conquistato anche il Continente. Gli anni passano, ma resta comunque un’ingente tradizione da preservare. Dopo la morte di Mario, le redini dell’azienda passano ai suoi tre nipoti: Riccardo, Corrado e Andrea. Ed è proprio quest’ultimo che nel 2000 rileva la proprietà dell’azienda. Curiosi di conoscere da vicino i protagonisti di questa avvincente avventura che attraversa oltre un secolo di storia, abbiamo incontrato le figlie dell’enologo Andrea, Sara e Marina, che con grande disponibilità hanno deciso di rispondere alle domande del nostro settimanale.

Oggi (lunedì 16 settembre per chi legge) inizia la vendemmia: che cosa vi attendete da questa annata?
«Lo scorso anno, fino alla fine di ottobre, il clima è stato molto torrido. Le uve hanno sofferto molto le alte temperature e l’annata ha registrato un deciso calo. Discorso a  parte va fatto per i Frassitelli, che essendo una zona di montagna, hanno dato delle ottime uve poiché le piante non hanno risentito del caldo. Riteniamo che quest’anno sia la qualità che la quantità delle uve possano di gran lunga aumentare».

Ci spiegate, in sintesi, secondo quali modalità si svolgerà il lavoro?
«L’uva viene tagliata manualmente, anche perché è impossibile con le nostre pendenze imporre una vendemmiatrice meccanica. Successivamente c’è l’arrivo immediato in cantina e questo per preservarne l’integrità. Per quanto riguarda i bianchi si passa ad una fase di pigiatura, seguita da una pressatura che deve essere lieve soprattutto per i vini di qualità. In seguito alla suddivisione del mosto c’è la fermentazione, preceduta da una fase di chiarifica. Si porta il mosto a basse temperature per 5-6 giorni, affinché tutta la feccia si depositi sul fondo. Questo processo ci consente di prelevare soltanto il mosto e porlo in fermentazione in botti di acciaio inox. Il vino viene poi stabilizzato attraverso una serie di travasi, che gli consentono di essere imbottigliato verso febbraio-marzo».

Come è possibile mantenere degli standard qualitativi elevati in un mercato sempre più competitivo?
«La qualità parte dall’attenzione che viene data alla vigna. Sta poi all’enologo, ”l’ ostetrico del vino”, tirar fuori il meglio dal prodotto. All’estero, più che in Italia, c’è maggiore cura per alcuni valori che sono presenti nel vino, come la solforosa che viene utilizzata in cantina».

Tradizione e tecnologia possono conciliarsi? Se si, in quale misura?
«La tecnologia, se sei bravo a sfruttarla, può aiutarti molto. Quest’anno ci siamo dotati di un refrigeratore, che consente di monitorare meglio il lavoro e, di conseguenza, di produrre un vino migliore. Se non se ne abusa, la tecnologia tutela la tradizione più che alterarla».

Immagino che sostenere economicamente una realtà come la vostra non sia affatto semplice.
«La crisi nel settore vinicolo si avverte, ma siamo riusciti a compensare questo disagio con le vendite all’estero, che negli ultimi anni si sono intensificate».

Qual è il prodotto che vi sta dando maggiori soddisfazioni?
« Biancolella, Frassitelli, e Per e’ Palummo a pari merito».

Vostro padre ha più volte affermato che oggi «bisogna investire nelle tradizioni locali, puntando ad un turismo di qualità».
«Il prodotto d’eccellenza richiama, di conseguenza, il turista di qualità, merce purtroppo sempre più rara negli ultimi tempi». (fra.cas.)

giovedì 12 settembre 2013

POST LAUREAM

Quello della disoccupazione, negli ultimi anni, rappresenta uno dei temi più dibattuti dall’opinione pubblica. La crisi economica che ha coinvolto l’Europa ha determinato una grave fase involutiva dalla quale i paesi del Vecchio Continente starebbero pian piano uscendo. Il punto cruciale di questa complessa materia riguarda l’occupazione giovanile. In particolar modo di coloro che, dopo aver conseguito il titolo universitario, hanno non poche difficoltà nel trovare un lavoro coerente col percorso di studi affrontato. Molti ragazzi, temendo per il futuro e non intravedendo alcuna possibilità d’essere inseriti nel settore di propria competenza, decidono di lasciare il Bel paese nel tentativo di trovare maggiore fortuna all’estero. La “fuga dei cervelli” è la diretta conseguenza di un clima di profonda indifferenza nei confronti dei neo-laureati, le cui mortificate potenzialità vengono invece esaltate nei centri di ricerca europei e d’oltreoceano, che fondano sul merito la propria scala di valutazione. I più capaci andranno avanti a studiare, per poi raggiungere risultati ragguardevoli in ogni settore.  Negli ultimi anni, a causa della parabola discendente assunta dalle riforme della scuola pubblica, numerosi sono stati i tagli – spesso indiscriminati e orizzontali – effettuati ai danni delle Università e del comparto scuola pubblica da parte di taluni esecutivi, che hanno ritenuto dover umiliare il comparto scuola per far respirare il paese. A questo punto bisognerebbe chiedersi se sia lecito definire libero e democratico uno Stato che limita, di fatto, se stesso sotto la spinta delle nuove generazioni. Nell’attesa che le nostre istituzioni possano ravvedersi e decidere di investire maggiori risorse nella cultura della vita piuttosto che in quella della morte (è quantomeno paradossale che lo Stato italiano sperperi del denaro pubblico per acquistare gli F-35 e che poi non sia in grado di sovvenzionare il lavoro dei ricercatori) passiamo ora ad una più attenta analisi dei dati relativi all’occupazione giovanile nel nostro paese. Riferendoci a quanto riportato dal quotidiano economico “Il Sole 24 ORE”, possiamo affermare con buona approssimazione che il 41,5% dei laureati di primo livello decide di affrontare la specialistica e che, inoltre, parte di essi (29,4%), ad un anno dal conseguimento della laurea, risulta già inserito nel mondo del lavoro, percependo una media di 955 euro al mese. Il trend migliora notevolmente quando si analizzano i dati riguardanti i laureati specialistici: il 56,8%, dopo circa un anno, guadagna in media 1088 euro mensili. Nel giro di tre anni, inoltre, non soltanto si registrano degli incrementi occupazionali (74,1%), ma addirittura il contenuto della busta paga lievita cospicuamente (lo stipendio si aggira in media attorno ai 1261 euro al mese). Qualche difficoltà iniziale potrebbero incontrare i laureati in giurisprudenza e medicina, che una volta conseguito il titolo accademico dovranno prima vedersela con le attività di formazione post lauream. Francesco Castaldi

lunedì 9 settembre 2013

A SCUOLA DI PRECARIATO

Tra poco meno di due settimane il suono della campanella sancirà l’inizio del nuovo anno scolastico. Un anno che, già prima di cominciare, presenta una serie di problemi che gli impediscono di decollare. Com’è ben noto, il settore scuola pubblica nel nostro paese è tra i meno valorizzati in assoluto, se escludiamo per un attimo l’impellente crisi del sistema sanitario. E poco importa che lo scorso 26 agosto il Consiglio dei Ministri presieduto da Enrico Letta abbia approvato il cosiddetto decreto “Salva Precari”: non sarà certamente un semplice «riordino dei contratti a termine del settore pubblico» a risolvere le spinose problematiche relative all’impiego nel mondo della scuola. Questa “riserva di concorso”, di cui tanto si parla negli ultimi giorni, garantirebbe a 50.000 precari “virtuosi” che risulteranno idonei di accedervi mediante bandi e concorsi pubblici. E intanto cresce di ora in ora l’esasperazione degli oltre 150.000 precari che, stufi delle proprie mediocri condizioni lavorative, già negli scorsi giorni hanno deciso di scendere in piazza per tutelare i propri diritti e gridare il proprio amaro dissenso. Volendoci riferire agli ultimi dati raccolti, circa il 20% del personale didattico (docenti, collaboratori e  tecnici) risulta impelagato nella procellosa tormenta del precariato. Il ministro della Pubblica Istruzione, Maria Chiara Carrozza, per far fronte alla sempre più deleteria ed intollerabile questione relativa all’occupazione nel comparto scuola, ha annunciato che nel prossimo triennio ci saranno 44.000 nuove assunzioni “di ruolo”. A guidare con maggior vigore e determinazione la protesta contro i tagli orizzontali promossi dagli ultimi esecutivi che hanno amministrato il Belpaese sono i docenti del coordinamento romagnolo che, in un eloquente comunicato stampa diffuso nelle scorse ore, fanno sapere che se lo Stato dovesse decidere di non perseguire le istanze volte ad un sostanziale rinnovamento del settore scuola, saranno costretti ad attuare «una politica di non collaborazione: non compiremo, cioè, tutte quelle attività non previste dal contratto nazionale […] come il ricevimento settimanale con i genitori, la sostituzione dei colleghi assenti, il coordinamento di classe o le uscite didattiche. Lo Stato ci usa come cavie, come banco di prova per togliere diritti ai lavoratori. Ma se ora non ci restituisce i nostri – si legge nella nota – metteremo di fingere di averli. Cominceremo con la manifestazione del 4 e poi vedremo. Noi abbiamo scelto questo mestiere e continueremo con ogni mezzo lecito a nostra disposizione, a difenderlo». Nella Capitale, intanto, aumentano i fermenti, con gli insegnanti del Coordinamento Precari Scuola di Roma che il prossimo 4 settembre, alle ore 15.00, attuerà un presidio in via Panciani «[…] dobbiamo dimostrare con la nostra presenza e la nostra determinazione nelle lotte che ogni anno lo Stato stipula con noi precari più di 100.000 contratti a tempo determinato e che, quindi, noi siamo essenziali alla scuola, che senza di noi le scuole non funzionano […]. Se non vogliamo essere prima oscurati e poi usati e gettati da uno Stato che dimostra di non avere alcun interesse né per la nostra dignità né per il nostro lavoro, né tantomeno per le sorti dell’istruzione pubblica, dobbiamo farci sentire con forza […]». In Campania il “quadro clinico” della scuola pubblica italiana si fa sempre più preoccupante: al dilagante fenomeno dell’assenteismo scolastico, infatti, si accompagna anche quello relativo all’edilizia scolastica, sempre più carente anche nel resto del Mezzogiorno. Si preannuncia un autunno caldissimo, con manifestazioni e sit-in che stimoleranno anche quest’anno “l’inizio delle ostilità” tra studenti, docenti e collaboratori scolastici da un lato e Governo dall’altro, sperando che qualcosa possa finalmente cambiare. E mai come in questi casi vale la frase, divenuta quasi proverbiale, che Aiello Raffaele, il disincantato ragazzino protagonista del best seller di Marcello D’Orta, scrive alla fine del suo tema: «Io speriamo che me la cavo». Francesco Castaldi

mercoledì 4 settembre 2013

UN SANTO TRA GLI UMILI

«Le doglie colgono donna Laura Gargiulo il 15 agosto 1654, mentre sta passeggiando nel borgo di Ischia, ad una certa distanza dal signorile e fortificato palazzo in cui abita. Così Carlo Gaetano, il suo terzo figlio, viene alla luce nella modesta stanzetta di una donna del popolo che generosamente e prontamente accoglie la partoriente. Quasi un segno che, quel bambino, non è destinato ad abitare a lungo nel palazzo dei Calosirto, una delle famiglie più in vista a facoltose di Ischia». Così l’agiografo piemontese Gianpiero Pettiti racconta la nascita di san Giovan Giovan Giuseppe della Croce, al secolo Carlo Gaetano Calosirto. Un personaggio che, nonostante i secoli, continua a stupire cattolici e non credenti per i suoi gesti e, soprattutto, per la profonda devozione dimostrata in vita. Fin da piccolo Carlo Gaetano conobbe la severità degli insegnamenti del padre Giuseppe e, in seguito, i rigidi precetti morali dei padri agostiniani, ai quali la famiglia affidò la prima educazione del ragazzo. All’età di 15 anni, forte della sua precoce ma intensa vocazione, lasciò gli sfarzi e le agiatezze per dedicarsi completamente alla vita monastica. Decise così di aderire all’ordine dei Francescani scalzi, fondato dal predicatore spagnolo Pietro d'Alcántara. Si trasferì dunque presso il convento di Santa Lucia al Monte a Napoli dove, alla veneranda età di ottant’anni, si sarebbe spento il 5 marzo 1734. Divenuto sacerdote il 18 settembre 1677, dedicò la sua intera esistenza non soltanto alla meditazione, ma anche ai tanti bisognosi che erano costretti a vivere in condizioni miserabili. Sempre il Pettiti ci descrive la fervida passione che albergava nel cuore e nella mente di Fra Giovan Giuseppe «la preghiera (…) e la meditazione (…) non riescono ad estraniarlo dal mondo, ma gli donano una sensibilità maggiore per scoprire, soprattutto fra le pieghe della sua Napoli, le mille contraddizioni e le tante miserie, nelle quali egli si muove perennemente scalzo, anche e ben al di là della sua Regola (…). Tanto che una volta si ammala, così gravemente da temere per la sua vita; appena guarito, eccolo nuovamente per strada, instancabile tra un malato da curare ed un moribondo da assistere. Perché Padre Giovan Giuseppe, non aspetta che i poveri arrivino a lui, preferisce andarseli a cercare direttamente nei tuguri e nelle soffitte». Il sacerdote ischitano fu anche artefice della riunificazione tra gli alcantarini italiani e quelli spagnoli, avvenuta con un decreto pontificio datato 22 giugno 1722, dopo quasi venti anni di attriti che minarono alla base la stabilità del Movimento Francescano. Nel frattempo la figura di Giovan Giuseppe divenne sempre più autorevole, tanto che l’allora arcivescovo di Napoli, cardinal Francesco Pignatelli, affidò all’umile frate francescano circa settanta conventi partenopei. Pare che in vita il presbitero abbia esercitato vari carismi, tra i quali il dono della profezia, quello dell’ubiquità, la lievitazione e che abbia, inoltre, avuto visioni mariane e del Salvatore. Il frate isolano, per le molteplici virtù esercitate in vita, fu proclamato Beato in San Pietro il 24 maggio 1789 da Papa Pio VI. Successivamente, il 26 maggio 1839, Gregorio XVI decise di canonizzare Giovan Giuseppe, che assurse finalmente agli onori degli altari celesti.

FOCUS: TORNANO SULL'ISOLA LE SPOGLIE DI SAN GIOVAN GIUSEPPE
30 settembre 2003: una data che i fedeli ischitani non dimenticheranno facilmente. A 269 anni dalla morte del Santo patrono, tornarono finalmente ad Ischia le spoglie di San Giovan Giuseppe della Croce. Un evento atteso da anni e che si realizzò concretamente grazie all'interessamento del vescovo di Ischia, il compianto Mons. Filippo Strofaldi. Le reliquie del santo, da quel giorno, riposano nella chiesa del convento di S.Antonio nel borgo di Ischia Ponte. Quel giorno la cerimonia, officiata nel tardo pomeriggio alla presenza di autorità politiche e religiose, si svolse presso il piazzale Aragonese, letteralmente gremito da un nutrito stuolo di fedeli che, successivamente, accompagnarono Strofaldi e i resti mortali di San Giovan Giuseppe verso la chiesa di S. Antonio.

PROCESSIONE

Benché il calendario ecclesiastico ricordi il santo il 5 marzo, i festeggiamenti per i patrocinio si svolgono a partire dalla prima domenica di settembre. Per ben quattro giorni le stradine del delizioso borgo d’Ischia Ponte si animano di luci e colori, mentre la cattedrale viene adornata a festa. Le reliquie del santo vengono portate in processione per le strade cittadine e per mare dove l’imbarcazione che le contiene è seguita da un corteo di pescherecci. I festeggiamenti si concludono tradizionalmente con uno spettacolo di fuochi pirotecnici, che suggella mirabilmente i solenni festeggiamenti in onore di San Giovan Giuseppe della Croce. (Francesco Castaldi)